Arcade Story, giorno otto: Final Fight

Loading

Le vicende di Harry ci portano a vivere una partita a Final Fight, un coin op che ha fatto storia.. andiamo ad immergerci nelle atmosfere noire di Arcade Story!

Final Fight in un giorno di pioggia

“Il ritmico suono dell’acqua che scende da una gronda mi fa sobbalzare. I comodi divanetti del bar di Melida mi sono stati fatali? Apro gli occhi ma no, quello che vedo non c’entra nulla”. Harry si risveglia in una stanza bianca poveramente arredata. Alla sua destra un armadio in legno che sarà almeno degli anni settanta. Davanti a lui una finestra dalla quale si scorge chiaramente una chiesa. La sagoma è familiare, già vista migliaia di volte anche se non ricorda quando. Potrebbe essere una sorta di reminiscenza della vita del presente che egli definisce come futuro?

La chiesa domina una piazza brulicante di vita

Con un movimento goffo Harry rotola giù dal letto e si affaccia alla finestra: la chiesa dal colore rosato domina la scena su una piazza brulicante di vita.

Ok, ho capito: sono vicino a dove abita Baby, a pochi metri dalla sala giochi Play Games, quella dove il tempo si incasina. Il tempo, una dimensione nella quale si concepirebbe e si misurerebbe il trascorrere degli eventi. Logicamente ipotetica, il tempo è un concetto tipicamente umano visto che l’uomo ha il solito vizio di dover dare una spiegazione a tutto, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Il tempo è solo apparente, non esiste nella realtà fondamentale ed è qui che sta l’inghippo. In questa realtà alternativa è facile ingannarlo, o almeno così pare. Eventi distinti tra loro possono apparire simultanei oppure staccati in proporzione a un variabile numero di cicli di un determinato fenomeno soggettivo e locale. Sembrerebbe possibile quantificare quanto un certo evento avvenga dopo un altro, ma in realtà ciò è fisicamente impossibile.

Gli eventi accadono in ordine diverso per osservatori differenti

L’istante è indefinibile, la simultaneità è solo apparente e gli eventi accadono in ordine diverso per osservatori differenti. Ogni istante è unico per ognuno di noi perciò ognuno ha la sua concezione dello scorrere del tempo e del succedersi degli eventi. Nella realtà futura esso è una specie di retta unidirezionale ma qui? Il tempo che separa due eventi corrisponde all’ammontare dei cicli intercorsi in una data cornice temporale, ma per altri osservatori l’ordine degli eventi potrebbe avere diversi cicli temporali o anche essere invertito. Zenone e i suoi paradossi: li scrisse magari dopo essere riuscito anche lui a balzare in una dimensione onirica parallela? John Ellis McTaggart credeva, dal canto suo, che il tempo e il cambiamento fossero semplici illusioni. Allora in quanto tali qui, a Cava del Sol nel mio 1993 alternativo, funziona come disse Henri Bergson, che attribuisce grande importanza agli stati di coscienza piuttosto che al tempo spazializzato? Non c’è continuità tra gli stati della coscienza: esiste una continua evoluzione, un movimento vissuto che la scienza non può spiegare.

Un ambiente vissuto, ma chissà quando

Preso da questi arzigogolati pensieri Harry esce dalla camera, un lungo corridoio si dipana a destra e a sinistra. Conosce questo posto, lo ha vissuto per anni e sa per certo che oggi non è più così. Poco importa, Harry gira deciso a sinistra e va in cucina. Il buon vecchio Mivar da 14 pollici è li sul frigo, dove è sempre stato. Accanto ad esso la credenza con la radio della Inno Hit. Poco più in là il calendario dove il padre segnava sempre alcuni appunti sulle giornate. L’impulso è troppo forte, sono anni che non lo faceva più: con mano tremante prende una penna e alla data 4 agosto 1993 scrive “Ci vediamo dopo, un abbraccio”. Il cuore di Harry si riempie di gioia in quell’istante mentre una lacrima scende sulla guancia. La discesa per le scale è repentina, il bisogno di aria fresca è quasi soffocante.

Lacrime, pioggia e cielo grigio

Piove, Harry alza lo sguardo al cielo mentre una fitta pioggia gli pulisce il viso e lo tranquillizza: le lacrime diventano invisibili quando mescolate alle gocce cadute dal cielo. Mentre pensa al da farsi nella sua mente si accende la melodia di Crying in the Rain dei Whitesnake, nulla di più appropriato al momento. I passi si dissolvono nelle pozzanghere sul marciapiede, il rumore dei pneumatici che solcano l’acqua rompono il silenzio quasi assordante di questa giornata. Chissà come escono certe parole, certi testi: nessuno sente il dolore, nessuno può vedere le lacrime quando stai piangendo nella pioggia. E’ come per le poesie, quando l’opera summa esce così, usando il sangue come inchiostro e la sofferenza come penna.

I colori sembrano invecchiati

E’ incredibile come una località di mare possa cambiare in una giornata di pioggia. I suoni, il vociare e i colori che ci regala il sole lasciano il posto ad una specie di vecchio film messo al rallentatore. I medesimi colori di tutti i giorni sembrano invecchiati, quasi filtrati con un effetto sepia. I costumi e le maglie sgargianti sono stati sostituiti da monocromatici pantaloni lunghi e giacche della tuta. Qualche ombrello colorato rompe il panorama con il suo colore sgargiante, come fosse una macchia scivolata su una tela grigia. Si dice sempre che le giornate piovose al mare siano giornate perse ma non la penso così, le ho sempre reputate belle a modo loro, riflessive. Alla fine sono un po come ognuno di noi: non siamo sempre solari, spesso lasciamo uscire la nostra cupa personalità.

E’ il tempo giusto per la sala giochi

Ma il tempo è anche quello giusto per andare alla ricerca di qualche amico e chiudersi in sala giochi a fare delle sane partite a qualcosa. Si, in sala giochi raramente ci vai con le idee chiare, la cosa importante è entrare, il resto lo si improvvisa seduta stante. Ho un ricordo in mente, non so perché sia li ne se esso sia veritiero o meno ma l’unico modo per fare luce è assecondarlo. Prendo e giro a destra in una piccola viuzza senza nome. La strada è un misto di sabbia, terra e ciottoli mentre sulla sinistra si allunga un pergolato di uva che tiene in ombra delle vetture parcheggiate. La fine di questa viuzza porta ai piedi del solito grattacielo bianco, sempre lui. So di dover girare a destra in quella che i cartelli mi dicono chiamarsi Viale Venezia e pochi metri dopo girare subito a sinistra, al terzo accesso al mare.

La sensazione di esserci già stato, un Deja Vu continuo

Non è un problema, so che è la via che costeggia l’Hotel La Gioia, ma non ho idea del perché so che ci abita pure Diego qui. E’ una delle sensazioni che vivo qui, in questa realtà passata: la sensazione di esserci già stato, quel senso di deja vu costante. D’istinto entro in un cancello sulla destra a pochi metri dalla spiaggia, prendo la scala che sale e mi dirigo al primo piano. Un attimo di batticuore, un pulsare ritmico che spezza il rumore della pioggia che batte sui tettucci delle auto parcheggiate poco sotto. E se non fosse casa sua? Le domande mi assalgono ma prima che possano mettermi in difficoltà ho già bussato con energia alla porta. La porta a vetri lascia intravedere un’ombra avvicinarsi: la maniglia ruota lentamente mentre uno spiraglio lascia intravedere un pezzo di volto. Non faccio in tempo a mettere a fuoco che la medesima si spalanca: Diego mi accoglie con un sorriso “Ciao Fratellone! Brutto tempo oggi vero?”.

Sgomento: perché so queste cose?

Il timore lascia spazio alla certezza, l’ansia spalanca una breccia allo sgomento: perchè so queste cose? “Si Diego, tempo di merda per andare in spiaggia. Mi chiedevo se ti andasse un giro in sala giochi”. L’amico non lascia tempo per pensare “Certo, prendo il marsupio e andiamo!”. Ci incamminiamo a ritroso nell’accesso al mare pensando dove andare “Il Drago è troppo lontano, qui tra un po inizia a piovere forte! Ti porto in una qui vicino”. Arrivati sul viale alberato giriamo a sinistra, procedendo con passo spedito. Passano pochi minuti e sull’altro lato della strada appare come dal nulla una di quelle sale giochi di una volta, talmente anonima da non avere neanche un’insegna. Attraversiamo e ci fiondiamo dentro.

Il fumo di sigaretta è come un pugno

Il fumo di sigaretta ci accoglie come un pugno negli occhi, l’odore che ci assale era qualcosa di distintivo: lo chiamavamo “odore elettrico”. Sembrava che le schede dei cabinati, nelle sale giochi più piccole e stipate, emanassero un aroma caratteristico di scheda madre, un qualcosa di indefinibile, una di quelle sensazioni olfattive che ti restano nella testa. In questo posto dal soffitto basso e con pochissima luce all’interno, i cabinati erano dei muri colorati che davano vita a corridoi labirintici. Una ventola a soffitto muove pigramente l’aria stantia sopra un bel tavolo da biliardo posto in fondo a destra. Ci muoviamo come uno snake all’interno di un angusto corridoio e ci facciamo il classico giro di ricognizione: era un classico, anche se il posto era conosciuto a memoria il primo giro era semplicemente una panoramica di tutti i cabinati. E non ci potevi fregare, riuscivamo a capire a colpo d’occhio se dentro il solito cab universale ci avevano cambiato la versione del videogioco con magari una bootleg che sembrava quasi identica.

Non c’è memoria di questo posto

Qui per me era tutto nuovo, non ho memoria di questo posto ne lo ho mai sognato, a patto che i sogni non fossero la realtà e che essa non sia solo un sogno. Ci fermiamo entrambi davanti ad un gioco che era già storico nel 1993 ma che nessuno si era mai stancato di giocare, quel Final Fight che da giocare in due è il totale divertimento. Per la precisione qui ci troviamo a che fare con la versione bootleg intitolata Final Crash, che in Italia era un must in qualsiasi sala giochi. Ricordo limpidamente le parole di Lucius Wagner quando mi fece capire che qui pensare è volere e volere è potere. Sinceramente non so assolutamente a che livelli sarebbe possibile tutto questo ma ho capito che se voglio posso avere in tasca i gettoni della sala giochi. E così dopo un attimo di smarrimento fermo Diego che stava frugando nel marsupio in cerca di spiccioli “Tranquillo, ho io gettoni”.

Gettoni pronti per Final Fight

Il suo sguardo attonito era più loquace di mille parole “Ma scusa Harry, quando li hai presi?”. Quelle domande alle quali vorrei rispondere ma che sistematicamente mettono in crisi ogni mia certezza di quello che faccio qui. Decido così di inserire due gettoni nel coin op e a seguito ne inserisco un altra bella manciata “Tanto ci servono, è un pezzo che non gioco più a Final Fight” asserisco quasi a giustificare quella cascata di dischetti argentati infilati nella fessura. E’ veramente un pezzo che non facevo un salto in quel di Metro City per fare neri quelli della Mad Gear. Geniali i signori della Capcom: all’epoca Final Fight doveva essere il seguito di Street Fighter ma ebbero la fortunata idea di non fare questa scelta. Si trovarono così tra le mani uno dei più bei picchiaduro a scorrimento, con un tocco di classe, quel nominare una gang di criminali con nome di Mad Gear, in onore ad un loro gioco di corse uscito nel 1988. I criminali in questione non sono, come da copione, molto furbi visto che hanno pensato di rapire Jessica, la figlia del sindaco.

Haggar e Cody per iniziare Final Fight

Non un sindaco vecchio e inerme visto che costui è il signor Haggar, il mio personaggio preferito del gioco. Ed infatti senza temporeggiare scelgo il muscoloso lottatore mentre Diego prende Cody, il fidanzato di Jessica. Lui non me lo dice ma sceglie sempre questo personaggio perché in fondo si rispecchia in esso, più che altro vorrebbe somigliarci. Final Fight è uno spasso, un picchiaduro veramente spettacolare: le ambientazioni metropolitane sono un capolavoro, il comparto audio ti immerge del tutto nel gioco. “Picchia quello, muoviti per dio” mi esorta Diego mentre un gruppetto di curiosi si accalca dietro di noi: il lato social della sala giochi non tarda mai ad arrivare. Ha ragione il mio socio, sono assente. Mi sto godendo ogni singolo secondo di questi momenti, di questi istanti in cui frammenti di memoria vecchi di decenni escono fuori e si connettono a questi istanti presenti.

Ogni trucco è lecito per andare avanti a Final Fight

Mi scuoto e parto verso il bordo dello schermo per anticipare l’entrata dei cattivi e farli secchi prima ancora che possano anche solo annusare il nostro sudore. Mi rendo conto che dietro di noi c’è incitamento, i ragazzi accalcati commentano che questo è il modo giusto di giocare. Forse non è il più spettacolare ma in sala giochi ogni trucco è lecito per poter andare avanti nel gioco. Dopo un primo livello molto easy, quasi di rodaggio, si passa alla metropolitana. Qui facciamo la conoscenza con un energumeno che è il tributo ad Andre de Giant e dell’ambiguo Poison, così chiamato in onore della famosa glam metal band. A ben notare il suo look è quasi un mix tra il modo di vestire di DeVille e Rikki Roket della band americana, che in Giappone spopolava. Meniamo a più non posso, ogni tanto qualche legnata scappa anche nei confronti del compagno di squadra, scatenando le risate degli spettatori. Una volta annientato Sodom, il samurai di fine livello, ci si lancia nel leggendario bonus stage dove ci si adatta al ruolo di sfasciacarrozze: un intermezzo così ben riuscito da essere riproposto anche in street fighter II.

Final Fight inizia a farsi duro

Prima di iniziare il livello West Side ne approfitto per mettere una manciata di gettoni nel cab perché da qui in avanti capiterà di morire più frequentemente di prima. Dopo un pezzo molto classico veniamo presi e buttati su un ring, dove dovremo portare a casa la pelle contro altri lottatori, per poi correre fuori e trovarsi faccia a faccia con Edi E. Questo boss è subdolo, ci da col manganello ed è aiutato da alcuni tirapiedi. Ma noi non ci lasciamo intimorire, ci concentriamo su di esso anche se un gettone ce lo porta via grazie alla pistola che tiene in tasca e che utilizzerà quando sarà con meno di metà energia. Ora nel gioco è notte, ci attende la fonderia dell’area industriale. Io e Diego procediamo fianco a fianco, sia su schermo che fisicamente, ed è una sensazione indescrivibile. Arriviamo ad un ascensore e l’azione cambia radicalmente fino ad arrivare a Rolento, il boss che odio di più di tutto il gioco, E come da copione mi mangia un bel numero di gettoni: la sua velocità col bastone è incredibile e quando gravemente ferito inizia a lanciare granate.

Bay Area e livello finale

L’alba sta per giungere in quel di Metro City e noi ci troviamo ad attraversare tutta la Bay Area per giungere alla parte finale del gioco. Il livello in questione è quello che mi entusiasma meno, è lungo e piuttosto ripetitivo. Probabilmente i programmatori avevano messo in conto il fatto che arrivare fino a qui sarebbe stato molto difficile e investirono meno tempo nella creazione del livello. Questa sensazione è rafforzata dal riciclo del cattivo in stile Andre de Giant come boss finale, seppur con un volto diverso. Siamo così arrivati nel covo dei Mad Gear, un sontuoso palazzo riccamente adornato. Qui la qualità del gioco torna indubbiamente a livelli eccelsi: dobbiamo attraversare quattro location una meglio dell’altra e soprattutto una più difficile dell’altra. Siamo sudati, giocare arcade a certi livelli è davvero estenuante. L’arrivo di Belger ci fa impazzire letteralmente: questo vecchietto sulla sedia a rotelle si rivela una belva armata di balestra, e se questo non bastasse è anche aiutato da numerosi scagnozzi. Riusciamo alla fine a scaraventarlo dalla finestra concludendo così il gioco.

Il finale di Final Fight e il colpo di scena

La struggente scena di Jessica che riabbraccia il padre con il dialogo a fianco è l’inizio del finale, il quale procede con Cody e Guy che percorrono la strada a ritroso. Ma colpo di scena: sopraggiunge la bionda scosciata che chiama il suo amato. Guy in un raptus di gelosia picchia Cody e lo lascia steso a terra. Lasciamo il cabinato soddisfatti e ci accingiamo ad uscire dalla sala giochi. Fuori diluvia. “Diego è un casino, qua non smette più” dico al mio amico. “Ma va, guarda che questo è il classico temporale che capita da queste parti. Dieci minuti e finisce” replica prontamente lo stesso. La strada è un fiume in piena, non si vedono nemmeno più i marciapiedi. “Diego ma cosa vuoi capirne te di queste cose, muoviamoci che è meglio” e mi lancio sotto il diluvio tirandomi dietro l’amico per la maglia. Tutto intorno è un delirio di persone: ci sono ragazzi che usano i materassini come surf sulla strada allagata, alla fine anche un diluvio di trasforma in una festa.

I due amici corrono e si lanciano nell’acqua ridendo, mentre il cielo repentinamente si apre. Sono quasi sotto casa di Diego quando il sole squarcia le nubi e riporta l’azzurro nel cielo. “Te lo avevo detto” tuona una voce che pare arrivare da tutte le direzioni. Harry si gira, la strada è deserta.

Anche questa puntata misteriosa è giunta al suo epilogo, la storia è sempre più strana. Mic the Biker vi saluta e vi consiglia qualche lettura dal nostro blog!

Cadash

Arcade da preservare e tramandare

Michele Novarina

Mic, tre lettere come negli highscore di una volta. Appassionato di videogames dagli albori degli anni 80.

Potrebbero interessarti anche...

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.